Intervista a Pigi Bernareggi (Tempi, 2013)
«Bill Gates regala computer, la Chiesa educa. Per questo è invisa al potere. A Belo Horizonte come a Milano, bisogna ripartire dalla comunità cristiana»
Un giorno dei primi anni Sessanta sull’aereoporto di Linate plana una comitiva di liceali. E sono girotondi, ole, canti e lacrime per tre giovani coetanei che partono per il Brasile. Entusiasti di un cristianesimo vissuto nelle aule scolastiche, i tre partono per rispondere a una chiamata. Quanto sia lontano quel tempo, a rammentarlo basta la vicenda di Giuliano Ibrahim Delnevo, ventenne italiano convertito all’islam e andato a morire in Siria per la causa del Corano. Intanto, mentre sembra passato un niente da quel mattino – un niente e quell’Italia non esiste più da un bel po’ – uno di quei tre è di ritorno (ma solo di passaggio) qui a Milano. «Mi chiamo don Pigi Bernareggi, sono nato a Milano nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ho passato la mia infanzia, come tutti gli italiani a quel tempo, tra fughe e traslochi in vari posti della Brianza e del Trentino. Poi, alla fine della guerra, sono ritornato a Milano e ho cominciato le scuole lì.Mi sono iscritto al liceo Berchet e a metà degli anni Cinquanta sono stato uno di quei ragazzi che hanno partecipato alla nascita di Gioventù Studentesca. Allora era la presenza della Chiesa di Milano nelle scuole pubbliche: in una decina d’anni si creò una rete di comunità di giovani cristiani in tutte le scuole della città. Continuando a occuparmi di Gs mi sono poi laureato all’Università Cattolica. Era il 1962, avrei dovuto fare il professore di filosofia, ma nel dialogo con don Luigi Giussani e il rettore del seminario che poi sarebbe diventato monsignor Giovanni Colombo, capii che dovevo entrare nel seminario della diocesi».
E come ci è finito a Belo Horizonte?
Era il tempo del Concilio Vaticano II e noi di Gs invitavamo spesso i vescovi a venire a raccontarci le loro esperienze, volevamo conoscere la Chiesa in tutto il mondo. Un bel giorno sono arrivati quelli di Belo Horizonte. Ci hanno raccontato la loro difficoltà per la mancanza di vocazioni sacerdotali. Allora ci siamo consultati e alla fine, insieme a don Giussani, decisi di diventare prete in Brasile, con altri due amici. Partimmo all’inizio del 1964, non come missionari ma come seminaristi. Io ero già dottore in filosofia, un altro era laureato in giurisprudenza e il terzo aveva appena finito il liceo. Sono stato ordinato in Brasile e ci sono rimasto, gli altri, invece, sono tornati in Italia. Da quel momento cominciai a lavorare nelle favelas.
Di questi che rientrarono dal Brasile e di altri che abbandonarono la Chiesa per la sinistra rivoluzionaria, don Giussani disse che non avevano compreso il cuore dell’esperienza cristiana.
Erano giovani avventurieri che pensavano di cambiare il mondo e risolvere le cose. Io non ero partito per questo, ma solo per servire la Chiesa e rispondere al suo appello. Non ho mai provato fascino per il terzomondismo, né ho mai pensato di dover risolvere i problemi della fame e dell’ingiustizia nel mondo. Volevo solo servire Cristo nella Chiesa. Ed è così ancora oggi. Per questo mi occupo dei favelados e dei “senza casa” da quasi cinquant’anni.
Papa Francesco sta svelando all’Occidente una Chiesa, quella latinoamericana, fortemente implicata con i poveri.
Fin dagli anni Settanta i vescovi dell’America Latina hanno fatto una scelta preferenziale per i giovani e per i poveri, anche se ancora negli anni Ottanta era difficile occuparsi di questi ultimi. Chi si curava dei poveri subiva la repressione delle dittature militari che imperversavano in tutto il continente. Per i regimi dittatoriali i preti che si occupavano degli ultimi erano solo dei “comunisti”. Naturalmente era una scusa. Generali e colonnelli volevano togliere di mezzo la Chiesa e dominare incontrastati sui popoli latinoamericani rendendoli schiavi e debitori degli usurai del mondo.
Usurai? Quali usurai?
Quelli del “club” dei senza paese e senza cittadinanza. Meglio, quelli la cui patria e cittadinanza è il mondo. Il mondo della ricchezza. Questi potenti si riuniscono tutti gli anni a fine gennaio a Davos e lottano contro qualsiasi tentativo di invertire i loro piani di sfruttamento delle ricchezze del pianeta. In Brasile ciò è stato sinonimo di miseria sempre più grande. Così, dagli anni Settanta in poi, la proliferazione delle cosiddette “città informali”, delle invasioni e occupazioni che hanno generato le favelas, è stata immensa. I “senza tetto” delle metropoli sono il corrispettivo dei “senza terra” delle campagne. E costituiscono la piaga più estesa di tutta l’America Latina.
Che differenza c’è tra “favelados” e “senza tetto”?
Mentre i favelados hanno una casa e lottano per la proprietà della terra, i “senza tetto” sono nomadi che vagano per città e favelas vivendo in totale povertà e precarietà. È un dramma sociale nascosto. Ma che riguarda il 30 per cento dei brasiliani. Persone con un’autostima bassissima, senza più coraggio, che hanno gettato la spugna. Sono un “non popolo” sparso fra il popolo. Per questo, almeno negli ultimi vent’anni, sono loro l’oggetto primario della pastorale nelle grandi città brasiliane. Anch’io, oltre a lavorare in una parrocchia in periferia, mi occupo di queste persone ignorate dai piani regolatori.
Come riesce ad aiutarli?
Facendo loro comprendere i motivi della povertà: è solo conoscendo la radice del male che puoi combatterlo. Gli incontri che facciamo con i “senza casa” non sono solo incontri sul problema dell’abitazione. I poveri non sono i poveri di denari. Sono coloro che in questo mondo disumano che distrugge tutto si sentono travolti e non hanno il coraggio di reagire. Perché gli manca il motivo per farlo. Allora bisogna ricominciare dalla ricostruzione della loro umanità, attraverso l’esperienza religiosa e comunitaria. È una vera e propria scuola dei “senza casa” quella che abbiamo costruito. Una scuola di comunità per recuperare il senso della vita.
Quindi è una povertà umana quella che sta alla base dell’indigenza economica.
Questa gente deve capire che non è povera perché cattiva, ignorante, incapace, sfortunata o quant’altro. Deve sapere che se non ha casa c’è una ragione e che bisogna reagire per venirne fuori. È un lungo lavoro di ricostruzione della loro coscienza. Ma anche a Milano accade lo stesso. Rispetto alle altre volte in cui sono tornato mi sono accorto che vi state impoverendo: non avevo mai visto tante persone chiedere la carità o faticare ad arrivare a fine mese. Si capisce che sta emergendo una stanchezza e un non senso a cui non si sa come reagire.
Intende dire che oltre alla crisi economica avverte anche un cedimento, diciamo così, “spirituale”?
È il vuoto dell’epoca moderna. Ho trascorso qualche giorno in Italia anche per andare in Università Cattolica a riprendermi la tesi di laurea che scrissi nel 1962 sul tema della mentalità moderna. Siamo nel XIV secolo e a partire da Guglielmo d’Ockham descrivo l’inversione dell’intelligenza: essa non è più capacità di cogliere la realtà, ma un produttore di concetti utili a manipolare la realtà. L’attuale deserto umano è il frutto di 700 anni di lavorio in questa direzione. Una parabola che si è conclusa nel secolo scorso e che oggi ha un’onda di riflusso. Affinché il mondo post moderno superi l’equivoco ockhamiano ci vorranno molti anni, perché tutta l’organizzazione sociale, politica e culturale attuale si fonda sull’idea che l’uomo possa cambiare la realtà con i suoi pensieri astratti. È un mondo fondato sull’illusione che il parlare, programmare, lottare, agire per ciò che il nostro pensiero concepisce come “giusto” e come “bene” sia per se stesso capace di rendere il mondo più giusto e più disposto al bene. Anche l’aiuto ai poveri è concepito così.
Cioè?
Le faccio un esempio. In America Latina i governi favoriscono principalmente gli ambienti del potere finanziario. Però, più avanzano sviluppo e potenza delle organizzazioni economiche, più la miseria dilaga. Basti pensare che il Brasile è la sesta potenza del mondo e una persona su tre non ha casa! Ad aggiungersi a ciò è l’incremento dell’assistenzialismo governativo, a cui i poveri si adattano non chiedendo più nulla. Il problema è che i potenti pensano sul serio che stanno facendo il bene del mondo. Lo scrittore francese Emmanuel Carrère, infiltrato a Davos, ha scritto un libro in cui racconta delle persone presenti al summit. Non ce n’è uno che non sia davvero convinto di essere tra gli “aggiustatutto” del pianeta. L’esempio lo ha dato Bill Gates con la sua fondazione di carità che regala computer ed elargisce fondi secondo una logica che serve solo a rendere la gente dipendente e a incrementare una mentalità tipicamente assistenziale. La Chiesa fa il contrario. La Chiesa educa. Perciò è invisa al potere. Se facessimo assistenzialismo, se fossimo una Ong, come ha detto papa Francesco, il cristianesimo diventerebbe davvero “l’oppio dei popoli” descritto da Marx.
Lei nelle favelas ha costruito anche chiese e cappelle. A che servono se il problema di quella gente è avere una casa, pane e lavoro?
Servono, servono… La vera liberazione nasce dall’incontro con Cristo. Non si può che ripartire da Lui.
Tornando in Italia che impressione ha avuto del cosiddetto “mondo cattolico”?
Lo dico con le parole del cardinal Angelo Scola, che sono andato a trovare durante il mio soggiorno a Milano: la Chiesa in Europa è stanca e triste. C’è bisogno di insegnarle a recuperare la sua gioventù. Le Messe sono piene di anziani, mentre i giovani non sanno più guardarsi in faccia: sono tutti connessi alla tecnologia, che è lo strumento di massificazione dell’intelligenza di una potenza devastante e spaventosa. Purtroppo il cristianesimo non è più la fonte della civiltà. Ed è perseguitato con i metodi più subdoli. Per questo la missione della Chiesa italiana ed europea non è più in giro per il mondo, ma la missione è qui, nel cuore della “scristianizzazione”.
E come può ripartire tale missione se, come dice lei, siamo nel cuore della “scristianizzazione”?
Dalla comunità cristiana. Bisogna leggere e studiare il libro di Angelo Scola: Come nasce e come vive una comunità cristiana. Scola parla della sua esperienza da ragazzo, ne ha fatto una sintesi bellissima da dare in mano a tutti i parroci, anche se molti di loro sono sfiduciati e non ci credono più. Descrive come i gruppi e i movimenti possono ritrovare la propria capacità di generare la comunità. Occorre seguire il metodo di Cristo per creare o rivitalizzare la comunità.
Intende il “metodo” di Gioventù Studentesca?
Eravamo la presenza della Chiesa nelle scuole superiori. Don Giussani capì che era la fascia dell’adolescenza quella da penetrare: se non intervieni lì è molto più difficile recuperare. Entrare nelle scuole vuol dire avere in mano il futuro della Chiesa. È lì che io ho imparato il metodo cristiano. Comunque sia credo che oggi come allora, oggi più che mai, bisogna ricominciare con i giovani. Li stiamo perdendo.
A 74 anni appena compiuti è preoccupato per il futuro di ciò che ha realizzato tra i suoi poveri di Belo Horizonte?
Ho un cancro. Ma sono vecchio, va piano. Non mi procura neanche troppo fastidio. Mi stanno curando. Se va bene, bene. Altrimenti mi preparo al grande passo finale.